mercoledì 9 maggio 2012

Tenersi a mente e portarsi: pesi e contrappesi sulla soglia di un Centro Antiviolenza

Suonare il campanello, salire le scale, bussare alla porta di un Centro Antiviolenza.
Azioni che hanno peso.

La porta si apre. 
Occhi che hanno addosso la fatica di chi ha trascinato l’anima in salita. 
Di peso. Contro gravità.
La resistenza incontrata è fisica: è un fatto di muscoli, articolazioni, crampi e battiti.

Qualcuna ha conservato quell’indirizzo in un cassetto, per anni.
Talismano della speranza.
A volte, è preferibile saperlo lì a porgere un filo a cui aggrapparsi al bisogno, che usarlo, rischiando di giocarselo per sempre, come insinua il sospetto che possa non servire a nulla..

Qualcun’altra ha chiamato un’amica la sera prima, chiedendo di testimoniare per lei le volontà della notte di fronte al mattino.
Ormai conosce bene il rischio di tradire i pensieri nati nel buio.
Il sole sembra dissolverli; li spaccia per ombre del dormiveglia, nebbie, illusioni.
Gli occhi sono troppo indeboliti per fronteggiarlo. Fotosensibilità acquisita..
All’amica si chiede di essere il palo sulla barca di Ulisse, a cui legarsi e stringersi, per sostenere il canto di sirene bugiarde e mantenere la traiettoria.

Le donne raccontano spesso di avere chiesto all’amica di accompagnarle, ma soprattutto di “co-stringerle” ad andare al Centro anche se improvvisamente, al mattino, avessero cambiato idea.

Chi apre la porta dall’interno sa che deve tenere presente il travaglio delle scale perché  dentro quelle stanze nascano le parole per dirlo e poi, lentamente, quelle per ri-darsi alla luce.

Elena Mearini ha scritto un piccolo romanzo molto intenso, in cui la fatica - a volte, davvero quasi epica - dell’andare fisicamente in un Centro Antiviolenza è narrata in un modo che riesce, secondo me, a metterne in parole il peso specifico, con un linguaggio che da, letteralmente, carne e consistenza al dolore.

Eccone un estratto:
"Una tachicardia forte. Tacco a spillo che batte in petto. Calpesta la gola e inciampa in bocca. Mordo le labbra. Sanno di cuore stracotto, dimenticato in pentola. Sono anni che non alzo il coperchio e ignoro il punto di ebollizione.
Cammino decisa.
Voglio provarci.
Cacciare il passo nell’acqua che scotta. Fare visita alla cottura del cuore. Sfidare l’ustione con l’amianto ai piedi.
Alla mia destra il civico trentadue. Scorro i nomi al citofono. Al terzo il dito si ferma. È tendinite all’indice. Nervo che incrocia e brucia. Reagisco a scatto d’estintore. Forzo la mano e premo il pulsante. Un getto forte sopra la scritta Sportello Donna – Centro d’ascolto. Apro il portone. Scala a destra. Terzo piano.  
Salgo contratta. Maglia di ferro che perde aggancio. A ogni scalino rischio un inciampo. Due rampe e mi fermo. Stringo la tracolla della borsa. Impugno il cuoio con la scalata in mano. Il piano terzo è cima che ghiaccia. Lassù non c’è spazio per una che si scorda il cuore sopra la fiamma accesa.
La psicologa scuoterà la testa. Riderà in faccia all’aorta evaporata, al ventricolo bollito. Una vita ormai spacciata. Cotta al punto che nemmeno il dente la morde più. 
Un’ultima rampa di scale. Forse sono ancora in tempo, bastano pochi passi. Altri otto. E potrei rompere l’esilio del mio morso. Spegnere il fornello dei miei giorni. Dire basta a questo eterno bagnomaria. 
Afferro il corrimano. Due gradini. Apro e chiudo le mandibole. Provo le vocali sulle labbra.
La bocca si allena a chiedere aiuto. Ma è parola troppo grande, ci sta scomoda nel palato, soffoca contro le gengive.
E muore prima di essere voce.
Sul pianerottolo è già funerale, terra e lapide al soccorso. Guardo la porta del Centro.
Arretro, gambero verso l’ascensore. Rossa di vergogna per averci provato a rompere il patto con la mia croce.
Cristo rimase fedele, andò avanti con la sua corona di graffi. Dritto al chiodo senza lamento.
Cosa penserà di me, ferma qui davanti? Con questa smania di aiuto in testa, io che non ho spine in fronte.
Io che ho soltanto Diego, calcato sulle tempie.”
(E. Mearini, Undicesimo comandamento, Perdisa Editore, pp.34-36) 

Principessa Amnesia. Illustrazione di Rebecca Dautremer in "Princesses oublièes ou inconnues".

"Quando dimentico è come se un'idea giocasse a rimpiattino sul fondo della mia anima".dice di sè la Principessa Amnesia.  
Tiene appeso al muro un foglio con su scritto: "Tenere a mente di non dimenticare di ricordare".
(...) "Dimentica tutto: chi è lei, chi siete voi, quello che farà, perchè siete là.. Non ha memoria davvero, solo un buco nero".                                                    (da P. Lechermeier, R. Dautremer , "Principesse dimenticate o sconosciute",  Rizzoli.)


L'Italia ha 55 lutti recenti da elaborare: le 55 donne morte di violenza di genere dall’inizio del 2012.
Molte di loro non sono mai arrivate alla porta di un centro antiviolenza.


Poi ci sono le donne che sfuggono ai conteggi, quelle che la violenza psicologica quotidiana tiene in agonia, togliendo loro anche l’energia necessaria a comporre il numero di telefono di un centro.

È per loro - per la memoria delle prime e per la vita delle altre - che dobbiamo scrivere e parlare non solo di violenza, ma soprattutto di Percorsi di Uscita dalla Violenza.
È per loro che dobbiamo riuscire ad immaginare contrappesi che trattengano le storie sulla soglia di un futuro pensabile, ogni volta che il peso del presente e quello del passato rischiano di zavorrare ai piedi di una scala.





10 commenti:

  1. sei grsnde dottoressa!sembri nata per vivere il tuo mestiere come una vera missione e nn potrebbe essere altrimenti..deve essere dura, provo a immaginare come ti ritiri la sera a casa col peso di tutte quelle storie e con il pensiero e la responsabilità che pesano su di te e le tue colleghe... coraggio, sei veramente in gamba!a presto Fedele

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    1. Penso però che le donne non abbiano bisogno di "missionarie", ma semplicemente di altre donne, competenti si, ma.. di carne,soprattutto di carne, più "incarnate" possibile.
      A dire la verità non mi rivedo del tutto nell'immagine di me che torno oberata da pesi e responsabilità. Certo quello che si fa in un centro antiviolenza è un lavoro "pesante", ma questa affermazione è vera solo se la si intende in un duplice senso: condividiamo pesi, sì, ma partecipiamo ad un processo importantissimo che è il dare peso, carne, corpo, consistenza... a cose dimenticate, perdute, rattrappite.."piccole cose di valore non quantificabile" - come si diceva in un bellisimo cortometraggio sulla violenza di genere - che sono però proprietà dell'anima. C'è uno spot-sociale in cui si dice "Se ami qualcuno dagli peso", lì si parla di disturbi alimentari, apparentemente non c'entra, però.. ecco: le donne che lavorano nei centri antiviolenza, stanno lì accanto a donne che si danno alla luce, re-imparando a darsi peso, quando il dis-amore le ha dis-incarnate.
      Questo è un peso? Si, in un certo senso si, ma non in uno solo, almeno in due, e forse anche in molti altri.
      E questi "pesi" possono non essere schiaccianti, ma generativi.

      E poi, in fondo, "gravida" non vuol dire letteralmente "carica di peso"? ^_^ ...

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  2. Mentre leggevo pensavo che i centri anti-violenza dovrebbero avere sportelli territoriali distribuiti come i consultori (benemeriti!) proprio per rendere il più possibile prossimo quel talismano della speranza, abbreviare quel percorso così faticoso da compiere quando si è appesantite da una vita di violenza.
    Grazie per queste riflessioni

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  3. L’ultima parte di queste pagine mi piace moltissimo. “la smania di aiuto” questo tendere a sminuire ciò che si prova, ciò che si sente, con o senza spine apparenti.
    Credo che il momento più intenso che si vive, superata quella porta sia, con il tempo, la comprensione che la fragilità non è per forza sinonimo di debolezza, ma anche fuoriuscita di risorse che sono là dentro, confuse nel tutto, in Noi. E la vita, che rimane sempre la nostra migliore occasione, diventa differente.
    Non eliminando il dolore, ma conoscendolo, standogli accanto e poi abbandonarlo.
    E allora la “smania di aiuto” che tutti viviamo, mi commuove sempre, (il che sembra quasi anacronistico) perché ci vuole molta forza a superare una scala, una porta, una parola sbagliata, un rapporto doloroso, ma questa somiglianza ci fa sentire tutti più vicini ed umani. E talvolta l’umanità è quello di cui sento la mancanza.
    Ti abbraccio :)

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    1. Cara Kosmito, grazie per le tue parole.
      Mi piace molto quello che scrivi a proposito delle "risorse che sono là dentro, confuse nel tutto" e, in fondo, sulla continuità tra caos e cosmo.
      Mi vengono in mente alcune parole di una splendida poesia di Wislawa Szymborska in cui si parla dell'Anima:

      "L’anima la si ha ogni tanto.
      Nessuno la ha di continuo
      e per sempre.

      Giorno dopo giorno,
      anno dopo anno
      possono passare senza di lei.

      (...)

      Gioia e tristezza
      non sono per lei due sentimenti diversi.
      E’ presente accanto a noi
      solo quando essi sono uniti".

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  4. Scrivi benissimo,leggendo mi sono immaginata davvero quella ragazza che conserva il biglietto per anni nel cassetto della scrivania e lo guarda ogni tanto per sentire una speranza! Penso che sia faticoso sostenere queste persone ma che possa dare molto anche a te! Infatti i rapporti non sono mai a senso unico,nemmeno quelli tra psicologo e paziente,c'è una dimenzione di amore piu'protetta,mediata,ma è sempre un rapporto di amore!

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  5. Grazie Merus, condivido quello che dici su quanto una relazione di aiuto possa essere nutriente per entrambe le parti. Come ho scritto sopra nella risposta ad un commento, credo non si tratti di qualcosa di "speciale" o di "grande", ma di qualcosa che ha "peso" in molti sensi ...e che mette in circolo risorse.

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  6. Condivido le osservazioni e gli apprezzamenti più che meritati. Saper scrivere, o meglio, narrare è un dono utilissimo proprio nel dar peso ad esperienze altrimenti così difficilmente comprensibili. AL riguardo mi viene in mente il ruolo che hanno avuto nelle società tradizionali le donne che, portatrici di un sapere antico e controculturale, hanno saputo circoscrivere nell'ombra degli spazi a loro assegnati dla potere patriarcale un sapere-medicina legato all'elemento femminile, alla sorellanza....si pensi a tutte quelle forme di sapere tradizionali che nel medioevo sono stati etichettati come stregoneria. Le donne sono fragili e forti nello stesso tempo e oggi hanno quasi del tutto perso il vero senso del femminino inteso come risorsa vitale archetipica. La nostra debolezza è la separazione tra noi stesse.Si pensi che in altre tradizioni culturali la donna riveste ancora un ruolo sociale forte anche se ambivalente (curandera).Dunque è per tutto ciò che apprezzo tantissimo donne come "Louise": oltre al sapere ufficiale ha le risorse per tessere le giuste trame psicologico/emotive/narrative per dare il peso di cui si parla qui e se mi consentite, oggi, tutto questo sta scomparendo e trovo che sia un delitto.

    Barbara

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