lunedì 25 marzo 2013

Un monumento alle donne violate. Quando immagini mute dicono quel che le comunità sentono

Violata è il titolo di un'opera inaugurata sabato scorso ad Ancona. 
La prima statua in Europa in onore delle donne vittime di violenza - così viene presentata da diversi giornalisti - è un'opera realizzata per il comune dallo scultore Floriano Ippoliti.
Fattezze giunoniche per un simulacro di donna a testa alta con abiti stracciati sui punti giusti e, pertanto, sodi seni e glutei al vento, vita molto bassa e gambe divaricate. Completa il tutto una borsetta con manico, un pò vintage. 
Ah, dimenticavo: il tutto è incomprensibilmente blu, per la gioia degli estimatori di Avatar (o di Puffetta).

Come nasce l’opera? Così risponde Floriano Ippoliti ad un quotidiano online abbruzzese: 
Ero rimasto molto colpito da un fatto di cronaca avvenuto due tre anni fa: una signora tornando dalla spesa era stata violentata e uccisa. Mi chiesi  come avrei reagito, cosa avrei provato se fosse successo a mia moglie. La cronaca ci riporta immagini di donne violate con il capo reclinato, in atteggiamento di grande sofferenza e grande timore. Io invece ho voluto rappresentare una donna che reagisce,  che per prima cosa raccoglie la sua borsa e poi rialzandosi guarda fiera al futuro, non lasciandosi intimidire dalla violenza subita”. 
Taglio corto: io trovo questa immagine un pugno nell'occhio prima ancora che una rappresentazione stereotipata e controproducente di un fenomeno. 
È sempre piuttosto imbarazzante dire di un'opera artistica che la si trova brutta, semplicemente brutta. Ma se c'è una libertà dell'espressione artistica, perché non dovrebbe essercene una, pura e semplice, di chi ne fruisce? 
Detto questo, il tema affrontato da Ippoliti è un tema sociale di grande rilevanza, che chiama in causa chiunque. Per questa ragione la riflessione sul come lo si rappresenti è doverosa, non perché ad un'artista si debbano imporre solo opere in qualche modo didattiche, che fotografino correttamente la realtà, ma perché   la genesi di quel come probabilmente ci fotografa come comunità, dicendo molto del modo in cui il fenomeno è sentito. Tanto più che la statua di Floriano Ippoliti è stata voluta e poi accolta da una comunità, dai suoi rappresentati istituzionali, da diversi cittadini e perfino da alcune associazioni femminili, stando a quanto riportato da alcuni notiziari online locali (Fonte: Notizie di zona).


È lo stesso Ippoliti a dire che lo spunto per il suo lavoro è stata una reazione emotiva ad una notizia di cronaca (presumibilmente conforme ai consueti canoni giornalistici sull'argomento, ovvero sbattuta in faccia con un misto di approssimazione e morbosità splatter). 
Verosimilmente l'impatto della notizia ha immediatamente innescato l'immedesimazione, la fatica di tollerarla e il bisogno conseguente di fuggire un dolore toccato in vivo per poco meno di un'istante. 
In circostanze come queste, ci si porta però appresso l'orribile idea che la prossima volta possa anche toccare a te (se si è donne) o a tua moglie. 
Se si è - almeno - avuta la lucidità di non attribuire la colpa alla stessa vittima (per i suoi vestiti provocanti per esempio) è effettivamente piuttosto difficile pacificarsi l'animo ed estrarre se stesse o la propria moglie/sorella/figlia dal novero delle possibili "prossime".
L'informazione appiattita sulla sola emozione produce questo: attiva, ed anche parecchio, ma innesca reazioni piuttosto che conoscenza e creazioni.
Di qui al sentire l'urgenza di negare l'effetto di un atto che uccide, immaginando (e augurando) una veloce resurrezione con tanto di borsetta alla mano, il passo è breve. E - come 'Violata' insegna - non è detto che a quel punto non risbuchino dalla finestra certi stereotipi sull'aspetto delle candidate ideali alla violenza che magari si erano cacciati via dalla porta principale del regno delle intenzioni.

Molte donne impegnate in una riflessione critica sulla rappresentazione del femminile nei media (Michela Murgia, Lorella Zanardo, Loredana Lipperini, Luisa Betti, le blogger di Vita da Streghe e Un altro genere di Comunicazione, solo per citarne alcune) hanno più volte sottolineato la pericolosità di una comunicazione sul tema della violenza di genere che raffigura la donna come bersaglio fragile da proteggere dal rischio - connaturato all'essere donna, secondo questa visione - di essere "sporcata". 
Rappresentazioni del genere schiacciano le donne nel ruolo di vittime e mistificano la realtà insinuando sottilmente che donne forti e volitive siano immuni dal rischio di subire violenza, idea ampiamente contraddetta dai dati. 

Paradossalmente però, nel caso dell'artista Ippoliti l'obiettivo di rappresentare una donna non schiacciata, ma in grado di rialzarsi e guardare al futuro, ci consegna un'immagine stridente che non a caso non può che chiamarsi, ancora e soltanto, Violata.
Quell'auspicio - abbastanza superficiale - che le donne sappiano non farsi intimidire, mi fa sorridere amaramente, perché i segni della violenza sono lividi nella psiche e spesso sul corpo, mai timidi rossori facili da scacciare, magari con un pò di selfhelp. 
Qualcosa accomuna le "rose bianche sporcate dalla nera violenza" (di una nota campagna istituzionale) e l'eroina blu-avatar di Ippoliti. 
Azzardo un'ipotesi: mentre nel primo tipo di immagini si mette in scena la volontà di tutelare un prima mitico connotato dalla purezza e dalla bontà di chi, in quanto pura e fragile, non merita la violenza, nella rappresentazione  un pò bionica di Ippoliti si auspica una sorta di tutela del futuro, ma quello di chi? 
L'idea che la donna assuma in qualche modo la violenza subìta e la metabolizzi velocemente, in fondo non è nuova, al contrario, mi sembra richiami una retorica patriarcale che santifica le donne-madricoraggio in grado di passare oltre a dolori anche estremi pur di garantire il futuro dei figli/della comunità, facendosi forza per gli altri. 
Il passato ed il futuro anteriore mi sembrano i tempi privilegiati da entrambe queste tipologie di rappresentazioni del fenomeno. 
Ma chi si farà carico, con le donne che vivono la violenza, del loro presente e del loro futuro prossimo? 
Le nostre comunità non sono probabilmente ancora del tutto disposte a farlo, lo rappresentano molte comunicazioni istituzionali come molte prove artistiche (o pseudo-tali).

domenica 24 marzo 2013

La differenza fra pedagogia e demagogia. Intervista a D. Pennac

D. Pennac.
Martedì 26 Marzo, lo scrittore riceverà la Laurea 
Honoris Causa in Pedagogia all'Università di Bologna
Riporto qui uno stralcio dell'intervista a Daniel Pennac, pubblicata ieri (23 Marzo 2013) su Repubblica.
Parole preziose...
D. Pennac: Oggi abbiamo bisogno di persone che cerchino di comprendere le paure di un adolescente, prima ancora di insegnargli qualcosa. È questa la funzione del pedagogo. Quando insegnavo cercavo sempre di capire i timori dei miei studenti, proprio perché nella mia infanzia scolastica la paura - di sbagliare, di non essere all'altezza, di non farcela - ha svolto un ruolo capitale. E per non far paura agli allievi, dobbiamo evitare di presentarci come i guardiani del tempio, provando invece a trasmettere loro la felicità che proviamo quando frequentiamo i libri. La lettura a voce alta è uno dei modi che consente di trasmettere questo sentimento di felicità, come pure la sensazione di liberazione che essa procura (...).
Intervistatore: Chi sono i guardiani del tempio?
D. Pennac: I guardiani del tempio sono coloro che confiscano la cultura per se stessi, difendendo i propri interessi e le proprie confraternite, e soprattutto decretando l'indegnità di certi lettori solo perché leggono determinate tipologie di libri. Sono  quelli che dai lettori esigono sempre un commento d un giudizio, preferibilmente in sintonia con il loro. Secondo me, invece la letteratura non ha nulla a che vedere con la comunicazione. Nessuno deve essere costretto a comunicare agli altri la natura del piacere procuratogli dalla lettura. La lettura è innanzitutto qualcosa per se stessi. È un rapporto d'intimità tra uno scrittore e un lettore. 
Intervistatore: A chi si contrappone la figura del pedagogo? 
D. Pennac:  Al demagogo da un lato e al mercante dall'altro. Purtroppo nella scuola non mancano i professori demagoghi, quelli che fanno finta di essere degli adolescenti per conquistarsi la simpatia degli allievi. È un atteggiamento che infantilizza sia i professori che gli allievi. In realtà i giovani, hanno bisogno di confrontarsi con degli adulti veri, la cui presenza li aiuti a costruirsi. Gli adulti devono indicare i limiti, spingere allo sforzo intellettuale ed esigere una certa sollecitudine riflessiva. Tutto ciò per insegnare ai ragazzi a riflettere da soli. Il pedagogo è colui che riesce a far sentire agli allievi che l'esercizio dell'intelligenza può essere una fonte di piacere. Il demagoghi invece propongono sempre le soluzioni più facili e soprattutto fanno sempre appello ad un'identità collettiva, una sola per tutti, dove si annulla ogni singolarità. A scuola, ma anche al di fuori, nella corsa al consumismo, nella moda, nella politica e perfino nella pratica artistica. Il demagogo è il pifferaio magico che seduce e ci conduce al disastro. 
Intervistatore: Perché i demagoghi oggi hanno tanto successo? 
D. Pennac:  Perché l'autorevolezza che nasce dall'esempio della singolarità è sempre più rara. È sempre più raro trovarsi di fronte ad un adulto capace di pensare con la propria testa e avere un comportamento indipendente, un adulto che dia l'impressione d'essere veramente se stesso e non il prodotto di mode e pensieri dominanti.
Intervistatore: Il successo della demagogia corrisponde ad una perdita globale di spirito critico? 
D. Pennac: Si, ma la perdita globale di spirito critico è figlia del bombardamento pubblicitario televisivo cui sono sottoposti sempre di più i bambini e i giovani. La pubblicità stuzzica in permanenza il loro desiderio di possedere (che in loro viene immediatamente confuso con il desiderio d'essere), trasformandoli tutti in clienti. Il pedagogo deve provare a decostruire questa situazione, tentando di trasmettere il piacere di comprendere, in modo che un allievo possa anche decidere di riflettere invece di passare il suo tempo a consumare, il che è già una manifestazione di spirito critico.
Intervistatore: Ma lo scrittore può anche essere un pedagogo?
 D. Pennac:  Non è il suo ruolo. Naturalmente dietro lo scrittore c'è un individuo reale che ha delle convinzioni e dei princìpi, ma non è assolutamente detto che ciò debba essere riconoscibile nelle sue opere. Più che pensare a insegnare qualcosa, lo scrittore deve sperare di diventare una compagnia per chi lo legge, nella convinzione che la lettura debba restare sempre un piacere per gli adulti come per i bambini. È pensando a questa relazione esclusiva che lo scrittore affronta ogni volta la condizione meravigliosa e stupita della solitudine di fronte all'oceano della lingua.
Intervistatore: Scrivere per i bambini è un esercizio più difficile?
D. Pennac:  In generale scrivo sempre per gli adulti, ma ogni tanto ho bisogno di rivolgermi anche ai più piccoli. In fondo, nella letteratura per l'infanzia e in quella per gli adulti i temi sono quasi sempre gli stessi, come dimostrano le fiabe. Cambia però la scrittura, che è più semplice, ma anche più rigorosa, dato che è sempre alla ricerca della parola giusta e precisa. La semplificazione non deve mai risolversi in perdita di senso.

sabato 23 marzo 2013

Marzo pazzo e il suo vento di cambiamento

Quel matto di Marzo ci ha portato finora ben tre volti nuovi su poltrone di pregio.

Come minimo questo rinnovamento primaverile ha già disseminato nuovo interesse per le vicende politico-religiose. Non pochi di noi si sono, di colpo, riappassionati alle vicende di quelle vecchie poltrone, attratti da un sentore di restyling.
Ma se la Primavera fosse un'età della vita sarebbe una frettolosa pre-pubertà, ahinoi, e così, animati da questo spirito prepuberale, tanti di noi la sera della fumata bianca avevano già colto in quel tal cenno con la mano o in quella tal'altra modulazione della voce, inequivocabili segni di santità papale e francescanesimo di fatto ancor più che di nome.

D'altro canto, al repertorio pre-puberale non poteva mancare anche il Bastian Contrario.
Me lo immagino cupo e vestito di scuro quel tipetto un pò funereo intento a spulciare - a comignolo ancora fumante -  il libro di Werbitsky, giornalista e grande accusatore dell'ex-vescovo di Buenos Aires, o a navigare in rete alla ricerca di una qualche puzzolente alga in grado di smascherare Jorge Mario e strappargli l'apparenza di Francesco, ancor prima che augurasse la prima buona notte da Papa a se stesso e ai convenuti.
La pazienza di aspettare, si sa, non è proprio il pezzo forte degli adolescenti in genere. Neanche con le sfumature va meglio: è tutto o bianco o nero.
E poi un Papa grigio non si è mai visto e non lo si vuol vedere neanche adesso (e qui, come dare torto...).

Tra gli impazienti più visibili, figura anche la cittadina Serenella Fucksia, senatrice pentastellata, che ha prontamente commentato con queste parole la nomina di Laura Boldrini a Presidente della Camera:
A me Laura Boldrini non piace perché ne parlano tutti bene ed è fin troppo facile parlarne bene (...). Lei ha un curriculum fin troppo bello, con questi incarichi troppo veloci e troppo facili. E’ figlia di una famiglia che sicuramente l’ha sostenuta e gli ha permesso di fare quello  che ha fatto. E a me le persone che si fan belle..”                     
                                                                         (Per saperne di più, potete leggere QUI) 
Argomentazioni solide, come vedete.

Questa primavera impulsiva è spesso snervante e forse, proprio perché precipitosa, effimera.
Aspettare non vuol dire rinunciare a reperire informazioni diverse, né a fare delle critiche anche dure se necessario, significa semplicemente darsi tempo per inquadrare, mettere a fuoco e costruire argomentazioni che abbiano giusto un pò di spessore in più di quelle della Senatrice Fucksia di turno (e non ci vuole poi molto).

Di questo Marzo superficiale io vorrei tenere qualche àncora di speranza, forse addirittura di passione.
Mi avvalgo della facoltà di non illudermi e mi tengo cara la consapevolezza che il rinnovamento delle istituzioni italiane e della Chiesa non può che avere tempi più lunghi di quelli che vorremmo, ma rivendico il diritto ad una dose di ottimismo fondato su alcune buone ragioni, fra tutte: la consapevolezza che la pressione sociale ha avuto, ed ha, un valore con cui i vertici dei partiti e delle istituzioni politiche e religiose non possono più non fare i conti.
Sulla cattedra di Pietro oggi c'è un Papa nuovo, "costretto" a chiamarsi Francesco e ad assumersi la responsabilità di onorare un nome/programma, mentre alla due camere di governo ci sono due persone il cui volto è legato alla difesa attiva dei diritti umani e della legalità.
Se è arrivato il tempo di questi volti, non lo si deve al solo carisma personale dei prescelti, nè soltanto alle logiche di marketing della Chiesa in un caso, o alle pressioni grilline nell'altro, ma  anche, e soprattutto, a chi fa della sua vita quotidiana un atto politico con cui definisce chiaramente ciò che non è più disposto a tollerare e ciò che chiede di costruire.
Lo si deve a chi non si limita ad additare il singolo rappresentante di potere o l'indifferenziata casta e ad aizzare usando  il malcontento di un Paese che implode.
Lo si deve a chi la democrazia la fa e la rigenera ogni giorno, perché la sente sacra. Dappertutto, anche all'oratorio o in sacrestia, in una sede di partito quanto in piazza e in parlamento, sulla pagina di un blog come in televisione o sulle pagine di un quotidiano.

Adesso,  bisognerà  fare un paziente lavoro di distinzione fra ciò che è inferno e ciò che non lo è,  come diceva Calvino, e si dovrà rendere ancora più visibile quel desiderio di cambiamento troppo a lungo rimasto in ombra o strumentalizzato.
Adesso, dopo i volti-progetto e alcuni apprezzabili premesse e prime pietre, bisognerà pretendere il cantiere e la costruzione.
Bisognerà vigilare, ma soprattutto partecipare.
La tarda primavera e l'estate adulta sono il tempo ideale per questo genere di lavori.

Buone lente (purché inesorabili) pulizie di Primavera a tutti noi.



  


domenica 10 marzo 2013

Quasi un battesimo

"All'inizio ci siamo toccati come se fossimo degli estranei. Poi ci siamo toccati come ci hanno insegnato a farlo. Solo alla fine abbiamo osato toccarci come facciamo noi due"
                                                     David Grossman,  Che tu sia per me il coltello 
Lorenzo Mattotti

Mi piace molto associare immagini e parole che mi hanno in qualche modo lasciato una traccia. 
È come se da questo lavoro di accostamento scaturisse ogni volta un'amplificazione di senso. 
Dopo mi è più chiaro perché proprio quelle parole e proprio quell'immagine (dipinto, foto, illustrazione o installazione che sia) siano riuscite a resistere al filtro severo della memoria.
Oggi è la volta di questo collage fatto di tratti e colori di Lorenzo Mattotti insieme a parole di David Grossman.
Non so bene come e quando si siano incrociati tra loro nella mia mente e forse non importa, basta sapere che la bellezza ci serve quando è capace di tagliarci come pane con un coltello, non per ferire ma per spezzare e poi nutrire l'anima della sua fragranza.
Mi basta questo per credere che questo incrocio mi servisse.

Ci sono relazioni dentro le quali sentiamo di apprendere moltissimo, ma probabilmente gli amori più grandi sono quelli  dentro ai quali soprattutto disimpariamo come in acqua disapprendiamo il tono controllato dei muscoli per imparare il sostegno dell'acqua, la leggerezza del peso corporeo e i movimenti altri del nuoto.

Ci sono amori forti come la morte e per questo vitali come un battesimo quotidiano.

Se volete, mi farebbe piacere che mi scriveste quello che vi suggerisce questo accostamento.





sabato 9 marzo 2013

Il mio 8 Marzo al Centro Antiviolenza, tra ordinario e straordinario


Mattina in servizio di risposta telefonica: 6 chiamate di donne che stanno subendo violenza.

Nel pomeriggio porte aperte alla città: l'emozione di accompagnare i visitatori e le visitatrici di ogni età tra le stanze del centro, raccontandole.. e sentire che lo straordinario nutre l'ordinario di energie nuove.